mercoledì 25 marzo 2015

Qual è il sesso dei numeri? E il numero preferito? E il numero più comune?

Se vi chiedessi qual è il vostro numero preferito che rispondereste? E se vi chiedessi se i numeri hanno un sesso?
Nel mio caso le mie risposte hanno coinciso in ambo i casi con le risposte della maggioranza degli intervistati.
Mi direte: ma che senso ha la domanda se i numeri abbiano un sesso? Bene, allora restringiamo il campo. I dispari sono maschili o femminili? Restringiamo ancora. Il numero 1 è maschile o femminile? E il 2?
Se volete rispondere senza essere influenzati fatelo ora, nei commenti, prima di leggere la fine di questo post.
Le risposte che troverete alla fine provengono dal libro di Alex Bellos pubblicato in italiano con il titolo I numeri ci somigliano. Libro che non ho letto. Ho ascoltato però l'intervista a Bellos di Radio3 Scienza del 17 marzo. Oltre alla domanda sul sesso dei numeri e sul numero preferito, durante l'intervista si parla di una legge matematica che ha dell'incredibile. La legge di Benford. Se uno vi dicesse prendiamo una tabella contenente tutti i numeri di abitanti di tutti i comuni italiani. Avreste una tabella con più di ottomila numeri. Dal 36 (il numero di abitanti di Pedesina) al 2.872.086 (il numero di abitanti di Roma). Se qualcuno vi chiedesse: preso un numero a caso da quell'insieme, qual è la probabilità che quel numero cominci con la cifra 1? (Come, ad esempio, il numero di abitanti del mio paese che, nell'anno in cui sono nato, era poco sopra ai 1900)

A intuito penso che tutti considereremmo il problema come equivalente al lancio di un ipotetico dado a nove facce con una possibilità (quella di avere 1 come prima cifra) su nove cifre, quindi 1/9. Cioè circa l'11,11% di probabilità che un numero scelto a caso cominci con la cifra 1. Allo stesso modo, circa l'11,11% di probabilità che quel numero cominci con la cifra 2, e così via.
E invece guardate qua! Il 31% di quei numeri cominciano con la cifra 1, il 16,9% con la cifra 2, il 12,9% con la cifra 3, e così a scendere.

E la cosa interessante è che questa non è una caratteristica dei comuni italiani. Qualsiasi altro insieme di dati reali "sufficientemente grande" e "sufficientemente distribuito su diversi ordini di grandezza" dovrebbe seguire la distribuzione stabilita da questa legge.
Ad esempio, se considero le cifre dei conti in banca di tutti i conti correnti italiani dovrei ottenere quella distribuzione. Ma, sorprendentemente, anche se converto quei numeri in dollari, o in yen, o in sterline dovrei ottenere sempre quella distribuzione!

E allora qualcuno ha pensato: perché non usare questa legge per scovare le frodi? Con l'idea che, di solito, chi froda non conosce questa legge e tende a inserire numeri con cifre equamente distribuite. Ed effettivamente negli Stati Uniti la legge di Benford è stata accettata come prova nella contabilità forense.
Ma allora come non dire che quello dello scovatore di frodi non sia un lavoro da matematici?
E quindi anch'io mi sono messo al lavoro e ho creato una tabella con i dati relativi al mio conto corrente. Ho preso i dati degli ultimi mesi, poco più di cento numeri, e li ho riassunti nella tabella sottostante. Nella prima colonna c'è la cifra, nella seconda il numero di volte che occorre come prima cifra dei vari numeri presenti nel mio conto corrente, poi la percentuale sul totale e infine la percentuale secondo la legge di Benford.

Conto Legge
1 45 42,06%   30.1%
2 19 17,76%  17.6%
3 11 10,28%   12.5%
4 10 9,35%   9.7%
5 10 9,35%   7.9%
6 2 1,87%   6.7%
7 3 2,80%   5.8%
8 4 3,74%   5.1%
9 3 2,80%   4.6%

Come vedete, le cifre che si discostano di più dalla legge sono l'1, con una differenza del 12,5% in più, il 6, con poco meno del 5% in meno, e il 7, l'8 e il 9, che hanno tutti meno occorrenze rispetto ai valori previsti dalla legge.
Ora sono un po' incerto se giudicare questo andamento come accettabilmente aderente alle previsioni della legge di Benford o se avviare una battaglia legale per frode nei confronti della mia banca. Posso considerare un insieme di 107 numeri "sufficientemente grande"? E soprattutto, posso considerare l'insieme dei numeri del mio conto "sufficientemente distribuito su diversi ordini di grandezza? Direi di no. Di certo gli ordini di grandezza non sono così ampi come quelli dei comuni italiani. E allora per stavolta la banca si è salvata.

Ah, quasi dimenticavo i risultati del sondaggio. Allora, la stragrande maggioranza degli intervistati considera i dispari maschili e i pari femminili.
E il numero preferito è il numero 7.
Comunque, se volete conoscere dei tentativi d'interpretazione delle ragioni di tali risultati ascoltate l'intervista a Bellos di Radio3 Scienza del 17 marzo. Vi dico solo che «già nelle prime rappresentazioni numeriche, in Mesopotamia, la parola per il numero uno, ges, significava uomo, mentre min, due, voleva dire anche donna. Poi, nel VI secolo a.C., Pitagora rafforzò il concetto definendo "maschili" i numeri dispari e "femminili" i numeri pari».
Ebbene sì. Si torna sempre lì.

domenica 8 marzo 2015

Come è stato scelto il genere dei nomi tedeschi?

La condivisione di questa foto da parte di Fabio Ronci mi ha ispirato alcune considerazioni grammaticali/probabilistiche sul genere dei nomi tedeschi.
Commentando la simpatica immagine dicevo a Fabio che, volendo essere pignoli e dando per buoni questi dati: maschile 47%, femminile 40%, neutro 13% , per avvicinarsi un po' di più alla realtà delle percentuali del genere dei nomi tedeschi si sarebbero dovute assegnare tre delle facce dei dadi al der (50%), due al die (33% approssimando) e una al das (17%).
Poi ho pensato che ancor meglio sarebbe stato passare dal cubo del dado a sei facce all'ottaedro del dado a otto facce. Assegnando quattro facce al der (50%), tre al die (37,5%) e una al das (12,5%). E la domanda successiva non poteva che essere: con i tipi di dadi generalmente in uso qual è il numero di facce che meglio approssima quelle percentuali?
Sicuramente ci sarà un modo matematicamente rigoroso per affrontare il problema. Se qualcuno dovesse conoscerlo si faccia pure avanti. Io, pigramente, l'ho affrontato in modo euristico.
Uno potrebbe pensare che aumentando il numero di facce l'approssimazione migliori uniformemente. La tendenza dovrebbe essere quella ma, se passiamo dall'ottaedro del dado a otto facce al trapezoedro pentagonale del dado a dieci facce otteniamo un'approssimazione di: cinque facce al der (50%), quattro al die (40%) e una al das (10%). E questa approssimazione è migliore di quella del dado a otto facce? Forse dovremmo definire una metrica per decidere come si misura un'approssimazione. Un modo semplice potrebbe essere quello di considerare la somma delle differenze dalle percentuali precise. In questo modo zero sarebbe la misura dell'approssimazione migliore e, con il crescere del valore della misura, peggiorerebbe l'approssimazione. Con questa misura, per l'ottaedro otterremmo 6 e anche per il dado a dieci facce otteniamo 6. Mentre per il dado tradizionale avevamo 14.
E se proviamo con il dodecaedro del dado a 12 facce otteniamo: sei facce (50%) al der, 4 (33%) al die e 2 (17%) al das. E cioè 14. La stessa approssimazione delle sei facce ma nettamente peggiore rispetto alle otto e alle dieci facce.
Certo se poi ci spingiamo verso le varianti più rare fino ad arrivare allo zocchihedron del dado a cento facce, in quel caso riusciamo a ottenere un'approssimazione perfetta con 47 facce al der, 40 al die e 13 al das.

domenica 1 marzo 2015

Il rinascimento: la nascita della prospettiva e i suoi aspetti geometrici - Numeri e Geometria attraverso la storia

Nella puntata precedente abbiamo parlato dei progressi che  Niccolò Copernico e Georg Joachim Rheticus apportarono alla trigonometria. In particolare, Rheticus, con l'Opus palatinum de triangulis, pubblicato dopo la sua morte, fece raggiungere alla trigonometria un livello di maturità molto avanzato.
Ma, tornando indietro di qualche anno e cambiando settore della matematica, possiamo osservare che in Italia cominciarono a svilupparsi nuovi rapporti tra la geometria e le arti figurative. È noto che i pittori medioevali, soprattutto fino al XIII sec., non riuscivano a rappresentare molto bene la dimensione della profondità spaziale. Ma, a partire dal XIV secolo, la Prospettiva cominciò a imporsi. Dapprima, con Giotto (1267 – 1337) e Ambrogio Lorenzetti  (1290 – 1348) (Annunciazione - 1344), in modo piuttosto intuitivo, e in seguito, durante il Rinascimento, attraverso approcci più scientifici.






http://carnevalenrico.altervista.org/
Il primo a ideare un metodo per rappresentare gli edifici in prospettiva fu l'architetto fiorentino Filippo Brunelleschi (1377 - 1446)1. A lui si deve l'invenzione della prospettiva a punto unico di fuga. Attraverso studi ed esperienze condotte con l'aiuto di strumenti ottici, Brunelleschi elaborò un procedimento per rappresentare gli edifici in prospettiva. Grazie a Leon Battista Alberti (1404 - 1472) sappiamo che due tavolette di Brunelleschi andate perdute raffiguravano il battistero visto dalla porta di Santa Maria del fiore, la piazza della Signoria e palazzo Vecchio. Alberti, inoltre, produsse la prima trattazione scritta sulla prospettiva a noi pervenuta: il De Pictura (1434-1436).
http://www.istitutomaserati.it/ 
Tra le altre cose il trattato descrive un metodo ideato dallo stesso Alberti per rappresentare, nel piano del dipinto verticale, una serie di quadrati disposti nel piano del pavimento orizzontale.
Sia V il punto della veduta in cui è situato l'occhio, h la distanza dal pavimento e k la distanza dal piano del dipinto. L'intersezione del piano del pavimento con il piano del dipinto viene chiamato "la linea giacente", il piede C della perpendicolare tirata da V al piano del dipinto viene chiamato "centro della visione" o punto di fuga principale, la linea passante per C e parallela alla line giacente è nota come "linea di fuga", e i punti situati su questa linea alla distanza k da C sono chiamati "punti di distanza". Se prendiamo dei punti equidistanti tra loro lungo la linea giacente, e se tracciamo delle linee che uniscano questi punti con C, allora la proiezione di queste linee sul piano del pavimento formerà un insieme di linee parallele ed equidistanti. Se da V tracciamo linee di connessione con tali punti, in modo da formare un altro insieme di linee che intersecano il piano del dipinto in altri punti, e se per questi ultimi punti tracciamo delle parallele alla linea giacente, allora l'insieme di trapezi nel piano del dipinto corrisponderà a un insieme di quadrati nel piano del pavimento.
Un ulteriore progresso nello sviluppo della prospettiva venne effettuato da Piero della Francesca (1416/1417 circa - 1492) nel suo secondo trattato De prospectiva pingendiPiero della Francesca affrontò un problema più complesso rispetto a quello affrontato dall'Alberti. E cioè quello di dipingere nel piano del dipinto oggetti tridimensionali così come essi vengono visti da un dato punto di veduta. Il suo primo trattato, Trattato d'abaco, scritto trent'anni prima, era invece dedicato alla matematica applicata al calcolo commerciale. E il suo terzo e ultimo trattato, Libellus de quinque corporibus regularibus, è dedicato alla geometria e riprende temi antichi di tradizione platonico-pitagorica, come, ad esempio, il riferimento alla "divina proporzione" secondo la quale si intersecano le diagonali di un pentagono regolare. Nel trattato Piero della Francesca trova inoltre il volume comune a due cilindri circolari uguali i cui assi si intersecano ad angoli retti. E arriva a questo risultato senza conoscere il lavoro di Archimede Della sfera e del cilindro, ancora da riscoprire a quei tempi. Quindi, il Piero della Francesca che si studia solitamente nella storia dell'arte può essere considerato a tutti gli effetti anche un matematico.

Nella prossima puntata parleremo dei progressi della geometria dopo la riscoperta di alcuni degli antichi trattati geometrici che avvenne intorno alla metà del XVI secolo e dell'introduzione di nuovi simboli.

Puntate precedenti...

Indice della serie

1 Carl B. BoyerStoria della matematica, Oscar Saggi Mondadori